Biancaneve non è un flop ma una vittima delle guerre culturali

Il remake del classico dei classici Disney passerà alla storia come uno dei peggiori disastri cinematografici di sempre. Un disastro che ha tante spiegazioni: un certo modo di fare film, i cambiamenti del pubblico ma anche il clima politico avverso.

26 Marzo 2025

Quando nel 2016 era stato annunciato il remake live-action di Biancaneve e i sette nani, il film era stato presentato al pubblico come un altro tassello del grande, e redditizio, mosaico di rivisitazione dei classici del Rinascimento Disney. Ma l’atmosfera politica nel momento di uscita effettiva del film, arrivate nelle sale la settimana scorsa, si è dimostrata troppo diversa da quella di dieci anni fa. Tra polemiche su casting e posizioni politiche delle protagoniste, le vicissitudini della Biancaneve del 2025 rappresentano perfettamente l’equilibrio precario, tra spinte progressiste e un sistema incattivito nei confronti della cosiddetta ”agenda woke”, in cui sembra essere rimasta bloccata l’industria cinematografica statunitense.

La scommessa Disney su Biancaneve

Da vent’anni diversi autori della Disney cercavano di riproporre il film d’animazione Biancaneve e i sette nani, primo lungometraggio animato prodotto da Walt Disney Productions e uscito nelle sale nel 1937, ma i tentativi di risceneggiarne la storia non avevano mai soddisfatto del tutto la dirigenza. Il mercato dei remake, aperto nel 2010 con la saga di Alice in Wonderland diretta da Tim Burton e che riprendeva il film d’animazione Alice nel Paese delle Meraviglie del 1951, porta però la Disney a dominare i box office proprio con i live action. Il picco di questo successo è il remake del Re leone, che nel 2019 diventa il terzo film d’animazione con maggiori incassi nella storia del cinema.

E così, nel 2016, Disney si convince che è arrivato il momento di annunciare il remake di Biancaneve e i sette nani: l’ex Ceo di Disney, Bob Chapek, al D23 Expo del 2022 dichiara con entusiasmo che la nuova Biancaneve sarebbe stato «incredibile, un altro grande successo». La produzione viene però rallentata da una serie di imprevisti. Durante le riprese a Londra scoppiano i primi focolai di Covid-19, che costringono Disney ad adottare rigide misure di sicurezza e ad aumentare significativamente anche i costi di produzione. Un incidente sul set, in cui una casa con tetto di paglia prende fuoco, causa ulteriori ritardi e nel 2023 lo sciopero degli attori blocca altre riprese. Gal Gadot, che interpreta la Regina Cattiva, ha poi delle complicazioni di salute durante la gravidanza, rallentando ulteriormente il lavoro.

Mentre la produzione si trova costretta, per problemi tecnici e incidenti vari, a posticipare riprese e montaggio, è già in corso un cambiamento politico-culturale che segnerà definitivamente e negativamente la sorte del film. Se negli ultimi dieci anni, infatti, i movimenti del Black Lives Matter e del #MeToo hanno costretto Hollywood a prendere coscienza dell’esistenza delle discriminazioni sistemiche, con il mandato Trump «il primato del politically correct si infrange», spiega Anna Camaiti Hostert, filosofa e professoressa di Gender Flows presso l’Università di Tor Vergata. e che da oltre trent’anni vive e lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti, approfondendo temi legati all’identità, alla cultura visuale e al populismo.

La reazione conservatrice e quella progressista

Nel 2021 il film entra nel mirino della destra americana, quando viene annunciata l’assegnazione del ruolo della protagonista a Rachel Zegler, un’attrice di origini colombiane. La decisione scatena critiche su X, dove spunta e cresce velocissimo l’hashtag #SnowWoke, gioco di parole tra Snow White, il nome inglese del personaggio, e woke, termine nato per descrivere movimenti progressisti e negli ultimi anni rubato dalla destra americana per indicare atteggiamenti considerati eccessivamente dogmatici o intolleranti.

Le polemiche crescono ancora quando Zegler, in diverse interviste, definisce il film originale «datato» e «sessista» e di essersi rifiutata di cantare una canzone, che nella versione originale s’intitola “Un giorno verrà il mio principe”. Il suo personaggio «non sarà salvato da un principe», aveva dichiarato ai media l’attrice, «sta sognando di diventare la leader che sa di poter essere». Ad aumentare le tensioni attorno al film si aggiungono le antitetiche posizioni politiche delle protagoniste rispetto al conflitto israelo-palestinese. Gal Gadot, interprete della Regina Cattiva e cittadina israeliana, esprime il proprio sostegno a Israele in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023: le sue dichiarazioni pubbliche porteranno un parte di pubblico a boicottare il film. Zegler manifesta il suo appoggio alla Palestina, pubblicando, subito dopo la diffusione del trailer del film, un post sui social con la scritta: «E ricordate sempre, Palestina libera». I rapporti tesissimi tra Gadot e Zegler sono diventati oggetto di analisi in centinaia di video sui social media che cercano nei microdettagli delle loro interazioni segni di conflitto.

Il malcontento del pubblico conservatore cresce poi con l’annuncio che i sette nani sarebbero stati rappresentati secondo i dettami Dei (Diversity, equity and inclusion), includendo attori di diverse etnie e con caratteristiche fisiche differenti. Quando invece emerge che i nani sarebbero stati ricreati in Cgi e che solo uno di loro sarebbe stato interpretato da un attore, alcuni accusano Disney di aver tolto opportunità di lavoro agli interpreti affetti da microsomia. Matt McCarthy, attore statunitense affetto da microsomia, dichiara infatti: «Sono nato per interpretare Cucciolo. Quando sei una persona bassa, le opportunità sono poche».

Le polemiche sui personaggi esplodono nel gennaio 2022, quando Peter Dinklage (che ha raggiunto la fama mondiale interpretando il personaggio di Tyrion Lannister nella serie televisiva Game of Thrones), in un’intervista al podcast Wtf di Marc Maron dice: «Sono rimasto sorpreso quando ho visto che erano orgogliosi di aver scelto un’attrice latina per Biancaneve, mentre continuavano a raccontare quella storia retrograda su sette nani che vivono in una caverna».

Il declino dei remake e le guerre culturali

Per cercare di contenere le polemiche e ridurre la copertura mediatica negativa, alla première di Hollywood del film è stato limitato l’accesso ai media e per la presentazione europea è stata scelta una location più discreta, nel nord della Spagna. Anche la promozione è stata gestita con attenzione: il film è stato presentato più volte alla convention D23, dedicata ai fan più affezionati della Disney, e Zegler è stata inviata in Giappone, lontano dagli Stati Uniti.

Ma nonostante una strategia comunicativa prudente, le previsioni di incasso per il film sono già brutalmente ridimensionate: un debutto intorno ai 45-50 milioni negli Stati Uniti e 100 milioni a livello globale, ben lontano dai suoi costi di produzione da 270 milioni di dollari dai 357 milioni di dollari incassati durante il weekend di apertura de La bella e la bestia (2017). Le recensioni, invece, sono miste: su Rotten Tomatoes il film ha il 42 per cento di valutazioni positive e di più del 70 per cento degli spettatori, mentre Metacritic gli assegna un punteggio di 50/100. La performance di Zegler è stata elogiata, invece sull’interpretazione di Gadot la risposta critica è stata quasi unanimemente negativa: la sua “All is Fair”, la canzone della Regina cattiva, è stata definita da Vulture una «anti-performance».

Secondo diversi analisti, il calo al botteghino è da contestualizzare in un momento di generale disinteresse del pubblico nei confronti dei remake in live-action dei film d’animazione. La Disney ha infatti già accantonato i progetti di remake di Bambi, La spada nella roccia ed Hercules. Eppure Mufasa – Il re leone, contemporaneamente prequel e sequel de Il re leone, remake fotorealistico dell’omonimo film d’animazione del 1994, è stato il sesto maggior incasso al mondo del 2024. Secondo altri, il flop di Biancaneve è da legare ad una produzione divisa tra la strategia di maggiore attenzione alla diversità che l’industria ha adottato negli ultimi anni e, dall’altro lato, le distanze che gli stessi studios, compresa la Disney, hanno preso recentemente da quelle stesse pratiche. Tutto nel tentativo di superare più o meno indenni la tempeste cominciata con l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump.

L’amministratore delegato della Disney, Bob Iger, ha infatti cercato di smorzare il coinvolgimento della società in «guerre culturali», come già accaduto in passato all’azienda. Nel 2022, infatti, dopo che l’azienda si era schierata contro la legge della Florida che limitava la discussione sulle tematiche Lgbtq+ nelle scuole pubbliche, il governatore Ron DeSantis aveva tolto a Disney il privilegio di autogestire l’area intorno ai suoi parchi tematici in Florida.

«Da un punto di vista di cultura e di percezione sociale, il trumpismo ha consolidato la sua influenza su un segmento ancora più significativo di pubblico rispetto alla prima presidenza. Ed è accaduto anche the other way around, cioè che questo stesso consolidamento nascesse anche perché c’è stata un’insofferenza da parte di certi gruppi sociali nei confronti della cultura woke», spiega la professoressa Camaiti Hostert. E la Biancaneve di Marc Webb, condannata perché troppo retrogrado ma anche criticato perché “troppo woke”, «possiamo dire che è un frutto anche dell’evoluzione di una società che ha delle forti radici discriminatorie, ma che è anche nata dalla multiculturalità, di una società che si trasforma, ma che oggi si trova a vivere una profonda divisione e confusione interna».

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